20 ottobre 2007

20 ottobre

Alla fine la manifestazione è arrivata. Settecentomila o un milione sono un buon risultato, considerando che il passaggio era stretto: persone che non sono soddisfatte dell'operato del governo ma continuerebbero a sostenerlo se cambiasse politica. E proprio perché il passaggio era stretto ci sono state molte dolorose defezioni: i no tav, i movimenti e i centri sociali.
Però c'era action, c'era la novità degli esternalizzati vodafone (foto 1), c'erano i no coke di Civitavecchia, a pochi giorni dalla morte di Michele Cozzolino, lavoratore (esternalizzato) alla centrale: l'enel vuole assurdamente trasformarla in centrale a carbone, ma anche adesso non soddisfa i criteri minimi di sicurezza.
C'erano molte belle persone, c'era Pietro Ingrao, 92 anni e una lucidità invidiabile.
Probabilmente c'erano anche i precari e i disoccupati, quelli che non possono essere andati ai plebisciti dei sindacati confederali e del partito democratico.
Ma i più divertenti erano gli interisti-leninisti.




17 ottobre 2007

25 aprile 1994 - 20 ottobre 2007

Qualcuno per la manifestazione del 20 ottobre ha ricordato quella del 25 aprile del 1994 a Milano. Forse perché entrambe sono organizzate dal manifesto, o forse perché la sinistra in quel momento era tramortita come e forse più di adesso.
Però c'è una grossa differenza: molti di quelli che c'erano quella volta, sfortunatamente, non ci sono più. Non ci sono quelli che hanno firmato o approvato un protocollo di peggioramento delle condizioni dei lavoratori e dei pensionati, non ci sono quelli che domenica hanno felicemente eletto il segretario del partito democratico che gli apparati di partito avevano già scelto mesi fa.
Non ci saranno quelli con cui sono andato io. Per ragioni che non ricordo, mi ero aggregato in un pullman della sinistra giovanile e siccome era lunedì quasi tutti avevano comprato l'unità che regalava gli album dei calciatori panini, ideona del direttore di allora, Walter Veltroni, però le figurine, per risparmiare, non erano vere figurine ma riprodotte sulla pagina.
Il viaggio in pullman è stato interminabile, eravamo partiti all'alba per arrivare alle due di pomeriggio, l'unica consolazione durante il viaggio era di essere sorpassati, da bologna in su, da tantissime macchine che avevano esposto, sul vetro posteriore, il paginone che il manifesto aveva prodotto per l'occasione, con il neonato a pugno chiuso che diceva, parafrasando la sua stessa pubblicità, "la liberazione non russa".
A Milano cominciò a piovere a dirotto, non un temporale di quelli intensi e brevi, proprio quelle piogge abbondanti e costanti, che sembrano non finire mai, eppure nessuno ha abbandonato la manifestazione. E al ritorno, a Roma siamo arrivati alle quattro di mattina, bagnati, stanchi e congelati, ma nessuno si è lamentato.
E a novembre ci fu una manifestazione contro una riforma delle pensioni, molto meno brutta di quelle che ci sono state dopo, ma comunque allora sembrò indecente a tutti. I sindacati non ebbero la sindrome del governo amico, arrivarono milioni (veri) di persone e il governo cadde subito dopo. Altri tempi, decisamente.

08 ottobre 2007

quarant'anni senza che guevara

E' difficile immaginarselo oggi da vecchio e dopo tutto quello che è successo nel mondo, ma se fosse vivo avrebbe meno di 80 anni.




Zamba del "Che"

(Rubén Ortiz)

Vengo cantando esta zamba
con redobles libertarios,
mataron al guerrillero
Che comandante Guevara.
Selvas, pampas y montañas
patria o muerte es su destino.

Que los derechos humanos
los violan en tantas partes,
en América Latina
domingo, lunes y martes.
Nos imponen militares
para sojuzgar los pueblos,
dictadores, asesinos,
gorilas y generales.

Explotan al campesino
al minero y al obrero,
cuánto dolor su destino,
hambre miseria y dolor..
Bolívar le dio el camino
y Guevara lo siguió:
liberar a nuestro pueblo
del dominio explotador.

A Cuba le dio la gloria
de la nación liberada.
Bolivia también le llora
su vida sacrificada.
San Ernesto de la Higuera
le llaman los campesinos,
selvas, pampas y montañas,
patria o muerte su destino.

03 ottobre 2007

verso il 20 ottobre

Dal manifesto di oggi.
In genere non mi piace copia-incollare cose che trovo su internet, perché è un gesto che non aggiunge nulla. Però faccio un eccezione, perché questo articolo resterà on line solo una settimana e perché non potrei mai scrivere da solo un post come questo articolo, non conoscendo un caso di precarietà così esemplare (e che parla così bene, tra l'altro).
Come Massimo, ci sono milioni di persone che vivono male solo per far risparmiare qualche soldo al loro datore di lavoro, che talvolta è un ente pubblico o lo stato stesso.
Il 20 ottobre, ma non solo quel giorno, si può fare qualcosa per loro.


La Scala replica lo «stagionale»
Di «lusso» - 25 mila euro l'anno - ma pur sempre precario. Massimo, 49 anni, lavora al call center del teatro milanese. La vita? «È altrove». Nei libri e in montagna
Manuela Cartosio
Milano
Da giovane suonava il sax. Gli è rimasto un fraseggio a strappi, ogni strappo una citazione. Il tempo di bere un caffé e parte la prima: «Come diceva Rimbaud, la vita è altrove». Altrove rispetto al «bunker», lo stanzone nel mezzanino della metropolitana in piazza Duomo dove Massimo Berni, 49 anni, lavora dal 1992 all'Infotel del Teatro alla Scala. Sei ore e venti minuti al giorno, sei giorni la settimana, per undici mesi all'anno fornisce informazioni sugli spettacoli in cartellone, su come e dove prenotare i biglietti «a gente che mediamente confonde un'opera con un balletto e che stramazza quando scopre che Wagner dura quattro ore». Contratto da «stagionale», anche se ormai la stagione della Scala è sempre più lunga (da settembre a luglio 26 alzate di sipario al mese), reiterato ogni anno, per non «sfondare» la pianta organica, risparmiare sul costo del lavoro, tenere la gente sulla corda della precarietà. Gli «stagionali», variamente precari, alla Scala sono circa 400 (i dipendenti fissi sono il doppio).
Massimo, diploma da corrispondente in lingue estere, il '77 come cifra politica e culturale, classica trafila di lavorettti mordi e fuggi quasi tutti in nero, alla Scala è entrato nell'86 come «maschera». Contratto a prestazione occasionale, pagato «a cartellino», «in divisa nera rimediavo 700-800 mila lire al mese». Nel '92 passa al call center dove resta ancora per cinque anni «a cartellino», fino al '97 quando arriva il contratto da stagionale. «Ebbene sì, adesso sono un precario di lusso». 24 mila euro l'anno, con contributi, ferie, malattia, tfr «che mi tengo ben stretto», sussidio di disoccupazione per il mese scoperto. Quello alla Scala per Massimo è il «primo lavoro», nel senso che da lì vengono «la busta paga e il welfare». Lo fa senza feeling, senza passione: «Timbro e basta, come in fabbrica. Il lavoro è routine senza prospettive di cambiamento, lo faccio in apnea». Orgoglio d'appartenenza? «Neanche un briciolo. La Scala è un bottegone, specchio fedele di questa brutta Italia, mi sono disamorato». Le gratificazioni vengono dal secondo lavoro, revisione di bozze per Egea, la casa editrice della Bocconi. Cinquemila euro l'anno, collaboratore occasionale a ritenuta d'acconto. Sveglia alle cinque di mattina quando bisogna consegnare il malloppo, «campare solo con i libri sarebbe l'ideale, purtroppo non si può». E arriva l'altra citazione, sorprendente sulla bocca di un ex Sessantasettino con l'immaginetta di San Precario nel portafogli: il Martin Eden autodidatta di Jack London, lettura base tanto tempo fa di generazioni di militanti comunisti. «Vengo da una famiglia povera che considerava la lettura e lo studio la strada maestra per emanciparsi». Non è andata esattamente così: «La mia è la prima generazione che sta peggio dei genitori». Non servono buone letture per rispondere a un call center. Il lavoro «moderno» non è solo precario, dissipa intelligenza e cultura, l'esatto contrario della cosiddetta società della conoscenza e della formazione permanente. Massimo ne ha preso atto e ricava le sue «soddisfazioni interiori» non dal «primo» lavoro, ma dai libri: «Esisteranno sempre e da vecchio, se gli occhi non mi tradiranno, potrò dedicarmi solo a quelli». Da «vecchio» significa tra una dozzina d'anni quando maturerà la pensione volontaria che si sta facendo con l'Ina (versa 110 euro al mese) da sommare a quella «sicuramente povera» della Scala.
Figli? «Non ne voglio per scelta. Ho una gatta». Moglie? «Fidanzata convivente. Lei sì che è una precaria dura. Lavora per il comune di Milano come animatrice socio-culturale, contratti da 4 mesi, 400 euro al mese a part time. Va avanti così dal 1995. Quando si avvicina la scadenza del contratto, Sara comincia ad avere lo sguardo nel vuoto. Se stai sulle balle al dirigente di zona, rischi. Se il dirigente vuol passare il lavoretto al figlio dell'amico, idem». Casa? «Sono fortunato, 55 metri quadrati a 500 euro al mese, mezzora di metropolitana da piazza Duomo. Riesco a mettere da parte qualcosa ma finora non ho pensato a mutui o roba simile». Tempo libero? «Trekking in montagna. Con un solo giorno libero alla settimana di strada non ne fai molta. Qualche volta prendo un giorno di ferie e l'attacco al turno di riposo». Amici? «Conto sulle dita di una mano quelli con un lavoro fisso. Pochi quelli con figli. Non solo per ragioni economiche, ma per la fatica di mettere insieme i tasselli e i tempi di una vita precaria».
Politica, sinistra, sindacato, governo Prodi e affini? «Omissis». E' una battuta, perché poi Massimo dilaga. Riassumendo: si qualifica un «anarchico-ecologista» che ha votato alle ultime elezioni per buttare giù Berlusconi, «pura delinquenza organizzata». Bisognava farlo, «anche se lo sapevo che il centro sinistra è puro liberismo, sempre 'sto chiodo di pareggiare i conti, si fa dettare la linea dalla Bce». La legge 30 è sempre lì, nonostante le promesse programmatiche, e comunque il peccato originale sta nel pacchetto Treu. Il tempo per il governo Prodi è «ampiamente» scaduto, il giudizio su Rifondazione è «ampiamente» negativo. E però - disattenzione o bontà d'animo? - la sentenza «bisogna far cadere il governo» il nostro interlocutore non la pronuncia. Massimo non è iscritto ad alcun sindacato. Boccia il protocollo sul Welfare, ma si capisce che la cosa non è in cima ai suoi pensieri. Il sindacato, «guai se non ci fosse, il problema sono i sindacalisti, difendono solo quelli che hanno la tessera, una roba che non mi aspettavo dai figli di Di Vittorio». Alla Scala salva alcuni delegati, «eletti dai lavoratori», va giù pesante su «burocrati» e segretari di categoria. Rimprovera alla Cgil d'aver «scoperto» i precari «quando eravamo già 3 milioni, un po' tardi». Sul grillismo è diviso: «Capisco lo sbotto, il ceto politico se lo merita tutto, ma ne percepisco la pericolosità». Sul Pd manco lo interroghiamo. E, sua sponte, Massimo detta: «E' autoeletto, autocelebrativo, autoreferenziale. Pussa via».
A un uomo di mezza età, che da giovane aveva sentito il fascino del rifiuto del posto fisso, chiediamo un bilancio. «La nostra utopia è stata realizzata in versione capitalistica». I padroni dalla flessibilità e dalla precarietà hanno ricavato due utili: uno economico, pagano meno la forza lavoro; l'altro politico-sociale, hanno frantumanto la classe. «Una volta centomila in piazza chiedevano la stessa cosa, adesso ognuno chiede la sua cosetta». Dunque, è sconfitta? «Su tutta la linea». Non tanto per le condizioni materiali di vita e di lavoro, «le mie tutto sommato sono discrete». Quanto per il paese che ne è venuto fuori: «La società italiana non è mai stata tanto feroce, ignorante, cafona, impermeabile all'altro. Io, io, io. Gli italiani non sanno dire altro. Io, il più lurido dei pronomi, questo pidocchio del pensiero, come diceva Gadda».
Urge un secondo caffé, per tirarsi su. Zuccherato con un ricordo non dei tempi in cui Berta filava ma di pochi anni fa: «Alla Scala siamo stati gli unici in piena epoca Berlusconi a vincere due a zero. Volevano segare tutti i precari e far fuori pure dei fissi. Non ci sono riusciti».
Il 20 ottobre trekking a Roma? «Ci sto pensando».

caetano veloso

Caetano Veloso è tornato a Roma il 29 settembre per presentare Cê, il suo ultimo disco, prodotto assieme al figlio Moreno, partito per essere un disco di samba e poi diventato un disco rock durante la lavorazione. Intanto è già pronto l'inevitabile "Cê ao vivo".
Accompagnato da un trio chitarra basso e batteria e vestito di jeans, Caetano lascia il pubblico inizialmente perplesso, e subisce anche una imprevedibile contestazione alla fine del terzo brano, con uno spettatore che gli urla "torna in brasile" e "facci sentire qualcosa di Toquinho", prima di essere sommerso dalla contestazione degli altri. Caetano la prende scherzosamente, dicendo "Toquinho è stato mio fidanzato, da giovane".
In seguito il pubblico ha mostrato di gradire di più. Del resto (e per fortuna) Caetano Veloso ha sempre realizzato dischi a tema, come "fina estampa" con i classici della musica sudamericana. In questo caso c'è un disco e un tour da rocker e in scena si muove un po' alla mick jagger, con salti da una parte all'altra del palco, mostrando una discreta agilità per i suoi 65 anni già compiuti.
Solo per due canzoni ha suonato da solo con la chitarra, per un frammento di concerto come forse il pubblico avrebbe sperato, ricordando il concerto-veltronata di pochi anni fa a piazza del popolo: la classica "leãozinho" e un omaggio ad Antonioni con la (dimenticabile) canzone scritta nel 2000 "Michelangelo Antonioni" dedicata ovviamente al regista, con testi in italiano e à la Antonioni.
A parte le canzoni di Cé, recupera poche canzoni dal passato remoto, come "London London" e "desde que o samba é samba".
Alla fine, dopo due ore di concerto e due bis, come capita sempre all'auditorium il pubblico è entusiasta e finisce in piedi a ballare.