È stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton.
Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i pessimi manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale.
Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5Stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul Tav Torino-Lione), e poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rossa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Sempre loro a usare il capitano di ventura Matteo Renzi nella mattanza finale… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.
(Marco Revelli, il manifesto, 6 marzo 2021)
Nessun commento:
Posta un commento