«Il comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale»
Toni Negri
Whatever it is, I'm against it
«Il comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale»
Toni Negri
Chissà chi si ricorda che c'era un tempo in cui la movida non esisteva ancora (è nata all'incirca negli anni 90, quando fu eliminata la norma sul limite di licenze commerciali dello stesso tipo in zone ravvicinate), la piazza non era pedonale, piena di macchine parcheggiate e con una scritta al muro che diceva "caro Bettino, te pijasse un cancro ar pancreas"
È stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton.
Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i pessimi manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale.
Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5Stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul Tav Torino-Lione), e poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rossa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Sempre loro a usare il capitano di ventura Matteo Renzi nella mattanza finale… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.
(Marco Revelli, il manifesto, 6 marzo 2021)
L'anno doveva essere il 1985. Il luogo era sicuramente, ma sorprendentemente, lo stadio comunale "Domenico Longobucco" di Scalea. In una zona in cui il fenomeno della speculazione edilizia era arrivato alla sua maturità, a meno di una decina di chilometri era sorto il "villaggio Maradona", ennesima teoria di palazzoni di colori strani, per una clientela evidentemente tifosa del Napoli. Non si sa bene quali fossero gli accordi tra il calciatore e i costruttori per lo sfruttamento del nome, ma un esito tangibile fu una partita amichevole, da giocare di lunedì, con incasso da devolvere in beneficenza, tra lo Scalea, che all'epoca navigava tra campionato di promozione e prima categoria e una squadra creata per l'occasione, con Maradona, due suoi fratelli e il resto ragazzi delle giovanili presi nell'area di Napoli. Si era appena giocata Napoli-Juventus, quella vinta dal Napoli con il famoso gol di Maradona su punizione da dentro l'area di rigore (tra l'altro rivedendola oggi perché inserita in molti necrologi, ho realizzato che non aveva sbagliato Tacconi, come pensavo all'epoca, casomai i giocatori in barriera).
Il biglietto costava 25 mila lire, un prezzo molto alto, anche considerando la beneficenza. Per vedere una partita dello Scalea se ne pagavano al massimo cinquemila, e venticinquemila bastavano per entrare in uno stadio di serie A, in curva. Così l'incasso fu di sole 500.000 lire: venti paganti. Gli spettatori erano però alcune centinaia. Chi rientrava nella mia fascia di età, ostentando atletismo e trasgressione, avrà scavalcato, ma molti altri saranno passati direttamente dai regolari cancelli senza pagare.
Da quelle parti ci sono tantissimi tifosi della Juventus (e i restanti sono quasi tutti per Inter e Milan), che pensarono di farla pagare a Maradona per il gol in campionato, e quindi fu fischiato per tutta la partita.
Maradona giocò da libero alla Picchi, uscendo raramente dalla propria area di rigore. Ciò deluse ulteriormente il pubblico, che non considerò che il lunedì era il giorno libero dei calciatori, che di domenica avevano giocato in campionato. Non mi ricordo il risultato finale e nemmeno chi vinse. Però, a giudicare da quante persone hanno poi sfoggiato la foto con lui, Maradona fu molto disponibile anche dopo la partita.
Di quella partita si parlò ancora per molti giorni. Ma invece della gioia di aver visto giocare un campione di quella portata, mi sono rimaste in mente piuttosto considerazioni un po’ livorose, ad esempio: "il nostro 11 gli ha fatto il tunnel e il nostro 6 lo ha dribblato".