10 febbraio 2025

Giorno della memoria

 Il 10 febbraio di ogni anno è doveroso ricordare i crimini commessi sul confine orientale.

In questa foto un soldato italiano mostra la testa di un partigiano yugoslavo infissa su un palo.


Per chi volesse ricordare altro si consiglia il sito http://www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it/


Sulle foibe
di Rossana Rossanda
il manifesto, 27 agosto 1996.
Da quando è presidente della Camera, Luciano Violante si è investito della missione di riscrivere la storia, che secondo lui non è mai stata giusta. Rifacendola, si potrebbe “riconciliare la nazione” che, come si sa, nel 1943 si divise.
Prima ci ha spiegato che occorre (o sarebbe addirittura occorso l’8 settembre?) capire i giovani che sceglievano Mussolini e Salò. Adesso rimprovera il suo ex partito - o ex suo partito o comunque si voglia chiamare il PCI - di aver nascosto che dal 1943 al 1945 i partigiani jugoslavi giustiziarono sommariamente e cacciarono nelle foibe non solo gli ustascia ma alcune migliaia di istriani che sospettavano d’accordo con loro, sicuramente molti innocenti. Il PCI ha occultato tutto, dice Violante riprendendo il segretario pidiessino di Trieste, per complicità totalitaria con Tito.
Si dà il caso che io sia stata una del PCI, e istriana da diverse generazioni. Conosco quella storia. Ma la conoscono tutti fuorché, forse, la distratta generazione di Violante: dal 1948 in poi le foibe ci vennero rinfacciate a ogni momento, e non solo dai fascisti che rivolevano Trieste (i loro eredi ancora mettono in causa il trattato di Osimo). Se la federazione triestina del PCI, a lungo diretta da Vittorio Vidali, fu dilaniata nel giudizio politico, storicamente non c’era nulla da scoprire.
Non è questione di archivi da portare alla luce, ci sono storie e documenti. Se Violante avesse velocemente consultato la abbastanza buona biblioteca della Camera, si sarebbe risparmiato delle enormità. La prima delle quali è tacere l’essenziale d’una vicenda che si pretende di ricostruire.
Non ci sono due possibili interpretazioni delle responsabilità italiane in Jugoslavia: ce n’è una. Ed è che l’Italia seguì Hitler nell’invasione della Jugoslavia del 1941, pretese un dominio particolare sulla Croazia, appoggiando Ante Pavelic e sovrapponendogli a mo’ di sovrano Aimone di Savoia Aosta, duca di Spoleto. Per due anni i corpi d’armata italiani, soprattutto la Pusteria, e i generali Cavallero, Ambrosio e Roatta attuarono operazioni orrende contro la guerriglia partigiana, la più lunga e coraggiosa d’Europa, gli ebrei, i musulmani, i serbi ed altre minoranze; le fonti di Renzo De Felice calcolano in oltre duecentomila gli uccisi.
Mentre una nobile gara si instaurava, teste indiscusso Luigi Pietromarchi, fra Roma e Berlino su come spartirsi le spoglie dei Balcani. In capo a due anni, con l’8 settembre, l’esercito italiano si disgrega e per l’onore del nostro disgraziato paese diversi soldati e ufficiali raggiungono le formazioni partigiane jugoslave. Ma non perciò esse hanno vinto: i tedeschi non mollano il fronte jugoslavo, se perdono dei territori tentano di riprenderli o li riprendono con ripetute offensive, che tengono impegnata la Wehrmacht come in nessun altro fronte occidentale. La Jugoslavia si può considerare liberata e la guerra quasi conclusa nel tardo 1944 con la presa di Belgrado.
L’unificazione dei comitati partigiani è avvenuta un anno prima. E Tito sarà riconosciuto come interlocutore soltanto alle soglie del 1945, gli inglesi avendogli preferito il governo all’estero di Mihailovic (alleati cetnici inclusi finché non cambiarono bandiera). Quattro anni di guerra di guerriglia, che il variare del fronte e degli esiti rende subito guerra, quattro anni di scontro con un esercito potente e crudele, di massacri, rappresaglie e saccheggi, sono un tempo infinito. L’odio seminato, e meritato, da italiani e collaborazionisti fu grande, e non dimenticato. E le vendette certamente atroci, e non dimenticate.
Ma le responsabilità non sono le stesse.
Non tiriamo in ballo i morti, che sono davvero fuori dalla storia, per far intendere che le colpe sono uguali, e che lo scontro è stato tra due totalitarismi che si equivalevano.
Questa è mistificazione, prima ancora che revisionismo. L’ignoranza e la confusione sono già abbastanza grandi perché un presidente della Camera ex comunista venga ad aumentarle.


24 gennaio 2024

Il comunismo

 «Il comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale»

Toni Negri

08 aprile 2021

Elogio dell'imprudenza

 ‹‹- E per scendere?

- Per scendere vedremo, - rispose; ed aggiunse misteriosamente: - Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso -. Bene, la gustammo, la carne dell’orso, nel corso di quella notte, che trovammo lunga.

Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventata un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. (…)

Ma tornammo a valle coi nostri mezzi e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino››.

Primo Levi
da “Ferro” ne Il sistema periodico

20 marzo 2021

Intanto a San Lorenzo


A San Lorenzo, piazza dell'Immacolata, un progetto di decoro urbano, molto in voga in questi anni, punta a cancellare il precedente assetto dedicato alla movida e al consumo selvaggio, che non è più ultimamente molto in voga, dopo una breve infatuazione e dopo aver arricchito molto alcune categorie.

Chissà chi si ricorda che c'era un tempo in cui la movida non esisteva ancora (è nata all'incirca negli anni 90, quando fu eliminata la norma sul limite di licenze commerciali dello stesso tipo in zone ravvicinate), la piazza non era pedonale, piena di macchine parcheggiate e con una scritta al muro che diceva "caro Bettino, te pijasse un cancro ar pancreas"
 

06 marzo 2021

Il governo dei migliori

 È stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton.

Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i pessimi manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale.

Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5Stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul Tav Torino-Lione), e poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rossa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Sempre loro a usare il capitano di ventura Matteo Renzi nella mattanza finale… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.

(Marco Revelli, il manifesto, 6 marzo 2021)

17 gennaio 2021

Vecchi ritagli



Quei tempi andati in cui leggevamo il giornale in cartaceo e, se ci piaceva qualcosa, lo ritagliavamo per conservarlo sembrano remoti almeno quanto la vignetta e il suo argomento.




30 novembre 2020

Quella volta che ho visto giocare Maradona (RIP)

L'anno doveva essere il 1985. Il luogo era sicuramente, ma sorprendentemente, lo stadio comunale "Domenico Longobucco" di Scalea. In una zona in cui il fenomeno della speculazione edilizia era arrivato alla sua maturità, a meno di una decina di chilometri era sorto il "villaggio Maradona", ennesima teoria di palazzoni di colori strani, per una clientela evidentemente tifosa del Napoli. Non si sa bene quali fossero gli accordi tra il calciatore e i costruttori per lo sfruttamento del nome, ma un esito tangibile fu una partita amichevole, da giocare di lunedì, con incasso da devolvere in beneficenza, tra lo Scalea, che all'epoca navigava tra campionato di promozione e prima categoria e una squadra creata per l'occasione, con Maradona, due suoi fratelli e il resto ragazzi delle giovanili presi nell'area di Napoli. Si era appena giocata Napoli-Juventus, quella vinta dal Napoli con il famoso gol di Maradona su punizione da dentro l'area di rigore (tra l'altro rivedendola oggi perché inserita in molti necrologi, ho realizzato che non aveva sbagliato Tacconi, come pensavo all'epoca, casomai i giocatori in barriera). 

Il biglietto costava 25 mila lire, un prezzo molto alto, anche considerando la beneficenza. Per vedere una partita dello Scalea se ne pagavano al massimo cinquemila, e venticinquemila bastavano per entrare in uno stadio di serie A, in curva. Così l'incasso fu di sole 500.000 lire: venti paganti. Gli spettatori erano però alcune centinaia. Chi rientrava nella mia fascia di età, ostentando atletismo e trasgressione, avrà scavalcato, ma molti altri saranno passati direttamente dai regolari cancelli senza pagare.

Da quelle parti ci sono tantissimi tifosi della Juventus (e i restanti sono quasi tutti per Inter e Milan), che pensarono di farla pagare a Maradona per il gol in campionato, e quindi fu fischiato per tutta la partita.

Maradona giocò da libero alla Picchi, uscendo raramente dalla propria area di rigore. Ciò deluse ulteriormente il pubblico, che non considerò che il lunedì era il giorno libero dei calciatori, che di domenica avevano giocato in campionato. Non mi ricordo il risultato finale e nemmeno chi vinse. Però, a giudicare da quante persone hanno poi sfoggiato la foto con lui, Maradona fu molto disponibile anche dopo la partita.

Di quella  partita si parlò ancora per molti giorni. Ma invece della gioia di aver visto giocare un campione di quella portata, mi sono rimaste in mente piuttosto considerazioni un po’ livorose, ad esempio: "il nostro 11 gli ha fatto il tunnel e il nostro 6 lo ha dribblato".