26 maggio 2025

Italiani brava gente

Il 19 febbraio del 1937, nel corso di una cerimonia organizzata per celebrare la nascita dell’erede di casa Savoia, due partigiani di origine eritrea fecero un attentano contro il viceré Rodolfo Graziani che rimase ferito. Sul luogo delle esplosioni gli italiani aprirono il fuoco uccidendo tutti gli etiopici convenuti e nei tre giorni successivi ammazzarono qualsiasi nero residente in Addis Abeba. Le repressioni poi nelle settimane successive vennero estese nel governatorato dell’Amara e nello Scioa. Debra Libanos ed Engecha furono le stragi più efferate. I morti nel complesso furono per lo meno 30 mila.

I nobili di medio rango vennero deportati nel campo di concentramento di Danane in Somalia e alle isole Dahlac, quelli di alto rango vennero internati in varie località della penisola: Longobucco, Mercogliano, Roma, Tivoli, Ponza, Asinara, Trento, Napoli, Firenze. Così scrisse Graziani qualche mese dopo, in settembre: «Per mio conto gli attuali confinati in Italia vi debbono essere lasciati morire tutti. È da rallegrarsi che sia avvenuto attentato del 19 febbraio, il quale ci ha dato la possibilità legittima di allontanarli, se no le cose in questo ultimo scorcio di ribellione sarebbero state ben diverse».

In Italia vennero deportati 383 etiopici: 272 uomini, 67 donne e 45 bambini. Il numero dei bambini, sotto i 14 anni, potrebbe essere più alto poiché negli elenchi non viene indicata l’età dei domestici e delle domestiche. Vennero ripartiti tra «particolarmente pericolosi» e «recuperabili».

Anche bambini e neonati se figli di ras vennero inclusi fra i particolarmente pericolosi i quali nei trasferimenti via terra e per mare vennero costantemente tenuti incatenati e segregati dai bianchi. Oltre a questi deportati, in Italia vennero internati altri soggetti come il ras Immirù, formalmente l’unico prigioniero di guerra insieme a Tajè Gululatiè, e la famiglia Nassibou, rapita per ottenere la consegna del ras Nassibou che poi morì per avere respirato iprite nella guerra del 1935-36.

La gestione dei deportati venne demandata al Ministero degli interni e ai prefetti che però dovettero più volte sottostare ai diktat del Ministero dell’Africa orientale italiana e all’accanimento di Enrico Cerulli, sottosegretario all’Africa italiana, inserito nel dopoguerra nella lista dei criminali di guerra presentata dal governo etiopico alle Nazioni unite. Le autorità entrarono più volte in conflitto per il semplice fatto che ognuna voleva esercitare potere sulle altre e a pagarne le conseguenze furono gli etiopici.

Ai deportati era concesso scrivere lettere ai parenti rimasti in patria e agli altri connazionali sparsi lungo la penisola. La traduzione veniva fatta da interpreti che svolgevano il ruolo di collaborazionisti poiché fornivano informazioni su atteggiamenti e discorsi che carpivano ai deportati. Le lettere, una volta tradotte, passavano al vaglio della censura che era compito di monsignor Barlassina della congregazione della Consolata il quale intratteneva stretti rapporti con gli Interni e l’Africa italiana fornendo loro informazioni confidenziali. Tra le centinaia di lettere conservate negli archivi della Farnesina, quella più forte è senz’altro quella scritta dai bambini internati a Mercogliano che, per inciso, quando la mostrai ad Angelo Del Boca mi disse: «basterebbe questa per farci un libro, dice tutto».

I deportati vennero rimpatriati nel 1938 per volontà di Amedeo di Savoia. L’obiettivo era quello di pacificare gli animi ma anche di ottenere significative sottomissioni. Il bastone e la carota insomma, una pratica ben rodata in Italia dal fascismo per piegare l’avversario. 

 

 

Tratto da "Giorgia Farina, un film con un re e la memorie dell’Etiopia" di Matteo Dominioni, Alias Domenica (il manifesto) del 25/5/2025

09 aprile 2025

Sulla prima notte di quiete

 "Non è che ho paura di morire. Solo che non voglio esserci quando accadrà." — Woody Allen
"Abbiamo mandato parecchie delegazioni, ma nessuna è mai tornata indietro"  — Giancarlo Paietta

Già che siamo su Paietta (su Berlinguer)
"Giovanissimo si iscrisse al Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano"

10 febbraio 2025

Giorno della memoria

 Il 10 febbraio di ogni anno è doveroso ricordare i crimini commessi sul confine orientale.

In questa foto un soldato italiano mostra la testa di un partigiano yugoslavo infissa su un palo.


Per chi volesse ricordare altro si consiglia il sito http://www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it/


Sulle foibe
di Rossana Rossanda
il manifesto, 27 agosto 1996.
Da quando è presidente della Camera, Luciano Violante si è investito della missione di riscrivere la storia, che secondo lui non è mai stata giusta. Rifacendola, si potrebbe “riconciliare la nazione” che, come si sa, nel 1943 si divise.
Prima ci ha spiegato che occorre (o sarebbe addirittura occorso l’8 settembre?) capire i giovani che sceglievano Mussolini e Salò. Adesso rimprovera il suo ex partito - o ex suo partito o comunque si voglia chiamare il PCI - di aver nascosto che dal 1943 al 1945 i partigiani jugoslavi giustiziarono sommariamente e cacciarono nelle foibe non solo gli ustascia ma alcune migliaia di istriani che sospettavano d’accordo con loro, sicuramente molti innocenti. Il PCI ha occultato tutto, dice Violante riprendendo il segretario pidiessino di Trieste, per complicità totalitaria con Tito.
Si dà il caso che io sia stata una del PCI, e istriana da diverse generazioni. Conosco quella storia. Ma la conoscono tutti fuorché, forse, la distratta generazione di Violante: dal 1948 in poi le foibe ci vennero rinfacciate a ogni momento, e non solo dai fascisti che rivolevano Trieste (i loro eredi ancora mettono in causa il trattato di Osimo). Se la federazione triestina del PCI, a lungo diretta da Vittorio Vidali, fu dilaniata nel giudizio politico, storicamente non c’era nulla da scoprire.
Non è questione di archivi da portare alla luce, ci sono storie e documenti. Se Violante avesse velocemente consultato la abbastanza buona biblioteca della Camera, si sarebbe risparmiato delle enormità. La prima delle quali è tacere l’essenziale d’una vicenda che si pretende di ricostruire.
Non ci sono due possibili interpretazioni delle responsabilità italiane in Jugoslavia: ce n’è una. Ed è che l’Italia seguì Hitler nell’invasione della Jugoslavia del 1941, pretese un dominio particolare sulla Croazia, appoggiando Ante Pavelic e sovrapponendogli a mo’ di sovrano Aimone di Savoia Aosta, duca di Spoleto. Per due anni i corpi d’armata italiani, soprattutto la Pusteria, e i generali Cavallero, Ambrosio e Roatta attuarono operazioni orrende contro la guerriglia partigiana, la più lunga e coraggiosa d’Europa, gli ebrei, i musulmani, i serbi ed altre minoranze; le fonti di Renzo De Felice calcolano in oltre duecentomila gli uccisi.
Mentre una nobile gara si instaurava, teste indiscusso Luigi Pietromarchi, fra Roma e Berlino su come spartirsi le spoglie dei Balcani. In capo a due anni, con l’8 settembre, l’esercito italiano si disgrega e per l’onore del nostro disgraziato paese diversi soldati e ufficiali raggiungono le formazioni partigiane jugoslave. Ma non perciò esse hanno vinto: i tedeschi non mollano il fronte jugoslavo, se perdono dei territori tentano di riprenderli o li riprendono con ripetute offensive, che tengono impegnata la Wehrmacht come in nessun altro fronte occidentale. La Jugoslavia si può considerare liberata e la guerra quasi conclusa nel tardo 1944 con la presa di Belgrado.
L’unificazione dei comitati partigiani è avvenuta un anno prima. E Tito sarà riconosciuto come interlocutore soltanto alle soglie del 1945, gli inglesi avendogli preferito il governo all’estero di Mihailovic (alleati cetnici inclusi finché non cambiarono bandiera). Quattro anni di guerra di guerriglia, che il variare del fronte e degli esiti rende subito guerra, quattro anni di scontro con un esercito potente e crudele, di massacri, rappresaglie e saccheggi, sono un tempo infinito. L’odio seminato, e meritato, da italiani e collaborazionisti fu grande, e non dimenticato. E le vendette certamente atroci, e non dimenticate.
Ma le responsabilità non sono le stesse.
Non tiriamo in ballo i morti, che sono davvero fuori dalla storia, per far intendere che le colpe sono uguali, e che lo scontro è stato tra due totalitarismi che si equivalevano.
Questa è mistificazione, prima ancora che revisionismo. L’ignoranza e la confusione sono già abbastanza grandi perché un presidente della Camera ex comunista venga ad aumentarle.


24 gennaio 2024

Il comunismo

 «Il comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale»

Toni Negri

08 aprile 2021

Elogio dell'imprudenza

 ‹‹- E per scendere?

- Per scendere vedremo, - rispose; ed aggiunse misteriosamente: - Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso -. Bene, la gustammo, la carne dell’orso, nel corso di quella notte, che trovammo lunga.

Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventata un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. (…)

Ma tornammo a valle coi nostri mezzi e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino››.

Primo Levi
da “Ferro” ne Il sistema periodico

20 marzo 2021

Intanto a San Lorenzo


A San Lorenzo, piazza dell'Immacolata, un progetto di decoro urbano, molto in voga in questi anni, punta a cancellare il precedente assetto dedicato alla movida e al consumo selvaggio, che non è più ultimamente molto in voga, dopo una breve infatuazione e dopo aver arricchito molto alcune categorie.

Chissà chi si ricorda che c'era un tempo in cui la movida non esisteva ancora (è nata all'incirca negli anni 90, quando fu eliminata la norma sul limite di licenze commerciali dello stesso tipo in zone ravvicinate), la piazza non era pedonale, piena di macchine parcheggiate e con una scritta al muro che diceva "caro Bettino, te pijasse un cancro ar pancreas"
 

06 marzo 2021

Il governo dei migliori

 È stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton.

Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i pessimi manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale.

Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5Stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul Tav Torino-Lione), e poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rossa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Sempre loro a usare il capitano di ventura Matteo Renzi nella mattanza finale… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.

(Marco Revelli, il manifesto, 6 marzo 2021)