26 febbraio 2008

antonio persia

Antonio Persia è un cantautore e blogger. Nonostante sia più (e da più tempo) cantautore, è più facile conoscerlo come blogger, semplicemente andando su antoniopersia.splinder.com
Chi conosce il suo blog sa che è molto lucido e molto ruvido, come capita spesso ai cantautori quando invece della musica si esprimono con la parola. Ricordo ad esempio un concerto in cui Claudio Lolli, erano i tempi in cui impazzava la canzone "vaffanculo" di Masini, ricordava che ad inventare il vaffanculo era stato Piero Ciampi: ma mentre Masini in realtà non diceva vaffanculo a nessuno, e si limitava a urlarlo assieme al pubblico, Ciampi mandava realmente affanculo il suo pubblico, il quale, risentito, restituiva l’invito al mittente.

Come blogger Antonio è piuttosto conosciuto, ma la sua musica, invece, è oscurata. Ha fatto due dischi, praticamente introvabili, a meno di ordinarli direttamente a lui.
Il primo disco, “Irriducibilmente… ancora canto” autoprodotto, è uscito nel 1990.

Il titolo riprende le parola di " L'ultima canzone", una sorta di manifesto del cantante di strada "mi sto meravigliando mentre ancora canto. Irriducibilmente, credo ancora a questo incanto".

Qui è racchiusa tutta la poetica di Antonio Persia artista, l’amore per un certo modo di fare musica, la tenacia di continuare nonostante le difficoltà. Ed è una ballata frizzante, che fa il paio con la fresca "Estate italiana”, canzone che conclude il disco in una ventata di speranza pop.
Per contrasto, il pezzo d’apertura è la rifessiva "Pierpaolo", omaggio affettuoso e malinconico per Pasolini, all’Idroscalo di Ostia, impreziosita da un coro femminile nel riff finale che ricorda l’ultimo de André, per quanto i versi siano invece presi in prestito a Francesco de Gregori. Sulla stessa linea è "Palermo", da cui traspaiono amore e disperazione, conditi da un sound mediorientale.

Il secondo disco, del 1992, si chiama “Ritorno al Futuro con le Canzoni Negate”, e contiene pezzi nuovi, ma anche altri esclusi forzatamente dal primo disco, che durava solo 26 minuti. Questo invece ne dura 85.

E’ una sorta di concept album, con delle brevi registrazioni d’attualità tra una canzone e l’altra: molte non sono riuscito a individuarle, per l’assenza di note, ma significative sono due interviste, a Occhetto e Sbardella, sulla possibilità che il Pds entrasse inopinatamente in un governo con Dc e Psi con Craxi presidente del consiglio. Quell’ipotesi poi sfumò, ma il partito nato dal Pci trovò in seguito nuove possibilità di autoscreditarsi.
E’ un opera molto ben radicata nell’attualità di allora. Il 1992 fu l’anno dello scoppio di tangentopoli e della grande offensiva della mafia, ma anche di una speranza che in Italia le cose, dopo cinquant’anni, potessero cambiare. Nel disco questa speranza non si sente, come se l’autore avesse già previsto come sarebbero andate le cose, mentre in tutti i testi è sempre in agguato l’ironia, che raggiunge i suoi apici nella swingante (e Caputiana?) “Appuntamento a Roma”, in “19P2” dove una musica giocosa contrasta volutamente con l’argomento drammatico, nel rock ecologico “Ossido, Tossico, Yeah” e nella suggestiva “Cara vecchia canzone d’autore”, affettuosa ma severa considerazione sullo stato della canzone d’autore del tempo.

Tra i pezzi da segnalare ci sono “Altri auspici”, poetico affresco che ripercorre i cambiamenti della società dal 1959 , in cui Persia sottolinea l’importanza e la fatica necessarie per trovare una strada valida, e per insegnare tutto questo al figlio. Il discorso genitoriale è presente anche nella lieve “Si torna in città”, canzone agrodolce sulla fine di un’estate mentre “Nu poc' 'e libbertà” è un esercizio di stile in forma di canzone napoletana, ma, credo, il dialetto è di Fondi.

19 febbraio 2008

grandi opere

Il mito delle grandi opere è stato nuovamente riproposto pochi giorni fa nel programma elettorale del partito democratico di Veltroni, in cui significativamente ambientalismo e opere pubbliche si trovano nello stesso capitolo e tra le opere da realizzare compaiono rigassificatori, termovalorizzatori e linee ferroviarie ad alta velocità.
Di fatto, nulla di nuovo rispetto al governo Prodi, e quasi niente di diverso rispetto al programma di Berlusconi. L'unica differenza è l’opposizione alla realizzazione del ponte di Messina. Ma Tonino di Pietro, alleato del PD alle elezioni, è sempre stato a favore del ponte.
Volendo prendere il lato positivo della cosa, siamo già sicuri che anche dopo il 14 aprile avremo modo di tornare in Val di Susa o ad Aprilia a dare una mano ai movimenti di difesa del territorio.

Per capire bene gli interessi che si celano dietro alla retorica delle grandi opere, è il caso di vedere che fine ha fatto una grande opera di dieci anni fa, ora realizzata: la cosiddetta Malpensa 2000, buon esempio di come il grosso affare per le lobby delle grandi opere non sia il loro utilizzo dopo il completamento, ma proprio la costruzione. E' cronaca di questi giorni, dopo averla pagata a caro prezzo, lo stato italiano dovrà adesso accollarsi anche i costi sociali del ridimensionamento.
Notare anche la percentuale dell’ammontare dei finanziamenti dell’unione europea sulla spesa finale, e ricordare come la perdita dei finanziamenti europei viene spesso usato come argomento per sostenere l’ineluttabilità dell’opera.
Tra venti anni non ci spiegheremo come hanno fatto a far credere che sarebbe stata utile una nuova ferrovia tra Torino e Lione. Più o meno come venti anni fa hanno fatto credere a tutti che in Italia servisse un altro aeroporto hub.

Lo scalo varesino è nato nel 1998 come una cattedrale nel deserto. Creava dal nulla, nella brughiera a 40 chilometri da Milano, un'offerta di traffico aereo del tutto sproporzionata alla domanda. Per questo in molti si erano opposti, innanzitutto i comitati di cittadini che abitano nei comuni vicini (non c'è mai stata la valutazione di impatto ambientale e i primi aerei volavano così bassi da scoperchiare i tetti delle case), ma anche il sindacato e il Prc erano contrari. Costruttori, imprenditori, governo (locale e centrale) non hanno voluto sentire ragioni. La domanda sarebbe arrivata e con lei turisti e businessman da e per tutto il mondo. L'eldorado, insomma. Alitalia era già in crisi per conto suo e per salvarla - dicevano - ci voleva proprio Malpensa. Allora era promessa sposa dell'olandese Klm, che aveva bisogno di un grande aeroporto per i voli a lungo raggio, e Malpensa era perfetta e unica in Italia. Oggi tutto è invertito: è Alitalia a essere indispensabile a Malpensa, che dipende dai suoi voli.
Una dipendenza su cui negli anni si è adagiata Sea, la società che controlla gli aeroporti milanesi (64% del Comune di Milano, 20% della Provincia). I voli Alitalia hanno consentito a Sea di appoggiare il regime di monopolio sulla gestione degli scali al monopolio di Alitalia: nessuno si doveva preoccupare di essere competitivo. Alitalia ha assicurato a Sea entrate certe (al di sopra del 50% dei ricavi), ma l'ha condannata ad un dipendenza assoluta dalla compagnia nazionale e dalle decisioni di Palazzo Chigi. Ora che la crisi di Alitalia è arrivata alla fine, i nodi vengono al pettine anche per Sea. Il piano AirFrance prevede dal primo aprile il taglio del 70% dei voli (da 1.191 a 365), la cancellazione di 43 rotte, 15,6 milioni di passeggeri in meno.
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Dopo la rottura con Klm, nel 2000, lo scalo varesino è diventato una delle maggiori voci di spesa per Alitalia, che ogni anno ci perde 200 milioni. Solo la realizzazione di Malpensa è costata 844 milioni di euro (439 dello Stato, 470 autofinanziati e 28 della Ue). Da allora lo scalo è stato penalizzato da una politica miope. Si è continuato ad operare nell'ideologia impossibile dell'hub, quando due hub in Italia sono un'utopia (Lufthansa usa Monaco e Francoforte, ma ha 85 aerei di lungo raggio, Alitalia 23). Malpensa quindi ha dovuto combattere una lotta fratricida con Fiumicino. Poi ha scontato la deregulation degli amministratori lombardi che non hanno mai ridotto Linate a city airport (oggi è il terzo scalo nazionale e solo ora Moratti si dice disposta a ridurlo), promuovendo troppi aeroporti vicini: Orio al Serio (Bg) e Montichiari (Bs).
Da Malpensa passano 23,716 milioni di passeggeri, solo il 37% del nord Italia. Gli altri hub europei raccolgono molto di più: Francoforte il 68%, Parigi il 57%. Come se non bastasse, i collegamenti con Malpensa non sono mai stati realizzati; è raggiungibile da Milano solo con il Malpensa Express, un treno che parte ogni mezz'ora (11 euro per 40 km) dalla stazione di Cadorna, senza collegamenti con la Centrale. Soltanto a fine marzo dovrebbe essere inaugurata la bretella che collega lo scalo all'autostrada Torino-Milano. Per ora è raggiungibile solo attraverso la congestionatissima autostrada dei laghi e una stradina di campagna che lo connette alla statale del Sempione.
(2)

Mpx (sigla di Malpensa, n.d.b.) dà l'impressione che tutti gli scarti della ricostruzione della Germania Est - tutto ciò di cui c'era bisogno per cancellare le privazioni del comunismo - siano stati accumulati sul luogo in gran fretta seguendo un progetto vagamente rettangolare per formare una pasticciata sequenza di spazi deformati e inadeguati, apparentemente voluti dai governanti dell'Europa estorcendo una quantità illimitata di euro dai fondi regionali della comunità per causare infiniti ritardi ai suoi turlupinati contribuenti, troppo occupati a parlare ai loro cellulari per accorgersene. (3)


(1) Giorgio Salvetti, Le fragili basi dell'orgoglio del Nord, da Il manifesto del 17/2/2008

(2) Giorgio Salvetti, «Basta con l'ideologia dell'hub», altre idee per salvare Malpensa, ibidem


(3) Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, 2001-2006

07 febbraio 2008

la quarta possibilità

In questo deprimente inizio di 2008 ci è già capitato di assistere alla rovinosa caduta del governo di centro-sinistra, a Berlusconi che ha potuto decidere in base alle sue convenienze quando votare e con quale legge elettorale, al suicidio elettorale del Pd di Veltroni che ha deciso di perdere nettamente e consegnare il paese alle destre. Due soli scenari sembrano possibili: o altri cinque anni di governo berlusconiano o un'assemblea costituente guidata da Berlusconi che riscriva a modo suo la costituzione. Di nuovo, si farà quello che conviene di più a Berlusconi.
In questa disastrosa situazione, per un elettore di sinistra, oltre a votare il Pd turandosi il naso, in una riproposizione estrema della retorica del "voto utile", a continuare a sostenere le attuali dirigenze della sinistra arcobaleno corresponsabili del disastro, oppure ad astenersi, c'è una quarta possibilità.

Dal Manifesto di oggi, di Turigliatto e Cannavò:
"La caduta del governo Prodi delinea il disastro di un'ipotesi politica debole e mal congegnata. In soli diciotto mesi il centrosinistra, la mitica Unione che doveva cambiare «davvero» l'Italia, ha inanellato un fallimento dopo l'altro lasciando dietro di sé macerie ingombranti. Un disastro materiale, fatto di impoverimento reale dei lavoratori e lavoratrici, di ulteriore precarizzazione del lavoro - ad esempio con la detassazione degli straordinari - di arricchimento delle imprese foraggiate con aiuti di stato inediti e massicci; ma anche un disastro politico che ha provocato disillusione, disincanto, perdita di fiducia, distacco dalla politica e dall'impegno attivo, demoralizzazione.
Prodi non è caduto semplicemente per una congiura mastelliana. Prodi cade anche perché isolato socialmente e in rotta con l'elettorato che, faticosamente e con grandi sacrifici, ne aveva consentito la vittoria innanzitutto per ostacolare le destre e l'odioso populismo berlusconiano. E' questo elemento ad aver generato la debolezza del governo, la sua fragilità e quindi la sua esposizione alle manovre di Mastella.
In questo disastro spicca il fallimento della sinistra di governo. La linea governista e l'ipotesi di alleanza con la «borghesia buona» ha fatto arretrare i diritti del lavoro, ha favorito le imprese e le banche e permette oggi un ritorno massiccio delle destre. Alla disfatta politica rappresentata dalle spedizioni all'estero, dall'aumento delle spese militari, dal cuneo fiscale, dal pacchetto Welfare, dal tradimento delle aspettative di uguaglianza del movimento lgbtq, dal decreto sicurezza, dalle liberalizzazioni di Bersani, dalla costruzione della base di Vicenza, dalle promozioni di De Gennaro, si aggiunge una disfatta sociale perché il più delle volte gli insuccessi sono stati esibiti come piccole vittorie, ipotetiche riduzioni del danno. Basterebbe vedere oggi lo sbandamento della sinistra e lo spaesamento degli stessi lavoratori e lavoratrici per rendersi conto di quanto grande sia stato invece il danno procurato.
Il fallimento della sinistra è senza appello e solo un grande processo di ripensamento generale e di rinnovamento radicale a tutti i livelli - a partire dai gruppi dirigenti - potrebbe permettere una nuova ipotesi di lavoro.
[...] crediamo che a sinistra dell'Arcobaleno sia necessario dare vita a una lista della Sinistra anticapitalista su una piattaforma avanzata di lotta e di rivendicazioni generali: aumento reale del salario, ripubblicizzazione dei servizi sociali, lotta senza quartiere contro gli omicidi sul lavoro, un piano di «rifiuti zero», contrasto alle spedizioni militari, riduzione spese militari e riconversione industria bellica, difesa dei diritti delle donne, dei diritti civili contro ogni ingerenza vaticana, abolizione della legge 30 e della Bossi-Fini, drastica riduzione dei privilegi istituzionali.
Una lista con caratteristiche di unità , pluralità e di innovazione: rotazione degli eletti, tetto ferreo alle indennità percepite, presenza di soggetti diversi. Una lista indisponibile ad alleanze e coalizioni con il Partito democratico ma che sappia ridare fiato e prospettiva a un'alternativa di sistema. Vogliamo lavorare per questo obiettivo nei pochi giorni che restano prima delle scadenze elettorali senza preclusioni o schematismi".

06 febbraio 2008

brasile

Scrivere delle impressioni su un paese come il Brasile può sembrare velleitario, poiché in un mese se ne può vedere solo una piccola parte. La stessa sensazione si ripresenta in ogni grande città brasiliana, di cui non si riesce mai a capire dove siano i confini.
E le ben note disuguaglianze sociali fanno sì che esistono molti paesi in uno. A guardare alcuni servizi si può considerare il Brasile un paese prospero e progredito, ma poi le favelas o le persone che dormono per strada raccontano un'altra storia.
Sulle favelas (che sono simili a quelle che si vedono in praticamente tutta l’america latina) i brasiliani hanno uno strano sentimento di consapevolezza e rimozione allo stesso tempo. Le favelas sono nate con l'abolizione della schiavitù, decretata malvolentieri alla fine dell'800 dai regnanti brasiliani a seguito delle pressioni soprattutto inglesi. Gli schiavi liberati, ma privati improvvisamente di sostentamento e di un posto dove vivere, hanno costruito fuori dal perimetro delle città le loro case, continuando il più delle volte a lavorare per i loro ex padroni.
Eppure la prima mappa di rio de janeiro comprendente le favelas è stata pubblicata solo nel 1994.
Per capire il processo di rimozione operato dai brasiliani, si può pensare alle versioni di favelas che ci sono nelle città italiane. Non mi riferisco alle borgate cantate da Pasolini della metà del 900, le cui case, oggi, dopo sommarie ristrutturazioni, sono vendute a centinaia di migliaia di euro con l'edulcorata definizione di "soluzione indipendente", ma alle vere baraccopoli di oggi: ad esempio a Roma ce n'è una sulla strada che porta ai campi sportivi di tor di quinto, via del baiardo (chiunque gioca a calcio a Roma probabilmente c'è passato). I giornali non ne parlano mai, a parte, e solo per qualche giorno, in occasione di fatti di cronaca nera accaduti nei dintorni, e molti ne ignorano l'esistenza, mentre altri probabilmente ritengono che non sia un problema delle istituzioni vista la nazionalità dei suoi abitanti; di fatto un quartiere di baracche costruite con legno e materiali di recupero è presente nella città di Roma, senza che ciò sia percepito come un problema. Un sentimento simile è presente anche in Brasile.
Il divario sociale produce ad esempio quello che in Italia si chiama turismo sessuale e in Brasile, più semplicemente, prostituzione. Deve essere un fenomeno ampio se negli alberghi di tutte le città di una minima grandezza c’era il divieto di ricevere prostitute. Se qualche cliente proveniente dall’Italia può vedere il fenomeno con più romanticismo del necessario, in Brasile lo chiamano esattamente per quello che è.
Se il divario sociale trae origine dalle vicende storiche del paese, a partire dal colonialismo, esso è stato però ampliato da vent'anni di dittatura, da fine anni '60 a metà anni '80 e successivamente, quando hanno ripreso ad esserci le elezioni, dalle politiche di presidenti neoliberisti che applicavano le direttive del fondo monetario internazionale.
Lula quindi si è trovato nella curiosa situazione in cui lo stato delle ingiustizie sociali non poteva che migliorare, ma d’altra parte era praticamente impossibile da risolvere.
Ad esempio ha varato il controverso programma "fome zero", che si proponeva di debellare il problema della fame, esistente in sacche di disagio sociale oppure in relativamente ristrette aree geografiche soggette a calamità o siccità; la morte di alcuni bambini indios è stata l'occasione per gli avversari politici di dichiarare il fallimento del programma. Nelle città invece il cibo abbonda, mentre drammatiche sono le condizioni dell'istruzione, con una grande percentuale di analfabeti, e della sanità pubblica. In generale i servizi pubblici sono stati smantellati negli anni '90. Le imprese pubbliche sono state privatizzate, ad eccezione della petrobras. Ciò ha portato, ad esempio, alla quasi scomparsa delle ferrovie, mentre la compagnia aerea di bandiera, la varig, è stata lasciata fallire per poi essere ricomprata da proprietario di una compagnia privata concorrente e rimessa in piedi in versione ridotta (destino a cui è stata condannata anche l’Alitalia).

Eppure le ricchezze naturali del paese sono enormi. Oltre all'autosufficienza petrolifera, si produce molto bio-carburante, ricavato in massima parte dalla canna da zucchero. La produzione agricola è molto fiorente e aumenta negli anni. Aumenta anche la superficie dedicata a coltivazioni, a scapito delle foreste amazzoniche (la difesa dell’ambiente e la salvaguardia dei pochi nativi rimasti sono considerati incompatibili – quindi sacrificabili - con le esigenze dell’impresa capitalistica).
Con una punta di orgoglio, ad esempio, una pubblicità enunciava che l'asfalto della pista di Interlagos era 100% brasiliano. E i tra i prodotti industriali a basso costo, molti sono made in brazil, i prodotti cinesi non hanno sfondato come nel resto del mondo.
Il costo della manodopera è molto basso, cosa che permette di vedere scene inusuali, come le folle di commessi dentro ai negozi o gli staff di pulitori che ai capolinea della metropolitana dopo ogni corsa salgono a pulire i vagoni.
Molto fruttuoso è il business della sicurezza. Porte blindate, cancelli, allarmi, recinzioni elettrificate, polizia privata, portieri armati in servizio 24 ore a guardia dei “predios”, i palazzi a molti piani, a loro volta preferiti dai brasiliani di ceto medio perché ritenuti più sicuri.
La ricerca di sicurezza ha causato la blindatura delle vite delle persone più abbienti e generato un “razzismo da censo” che dicono essere molto diffuso, mentre meno diffuso di altri paesi dicono sia il “razzismo da pelle”.

La liberalizzazione dei costumi è molto avanzata: ad esempio sono diffusissimi, e usati senza problemi, i motel, alberghi ad ore. Di contro l'aborto non è legalizzato.
Contrariamente a quello che accade qui, la chiesa cattolica è in piena crisi e ha perso moltissimo seguito, confluito nella miriade di altre chiese cristiane. In Italia si è parlato di quella seguita da Kakà, "renascer", che però ha proprio come unica particolarità quella di ricevere pubblicità gratuita dalla vocazione dell'ingenuo calciatore. Come renascer, quasi tutte hanno dei patriarchi con problemi giudiziari e blindati in lussuosissime ville a Miami o a San Paolo e quasi tutte hanno un flusso crescente di fedeli. Ciò che cambia sono i riti e i luoghi di insediamento. Se la "igreja universal do reino de deus" ha chiese faraoniche, somiglianti a centri commerciali, gli amati "shopping" dei brasiliani, la "assemblea de deus" ha chiese modeste ma molto numerose. Il contrasto è stridente: nelle chiese di epoca coloniale, amministrate dalla chiesa di roma, alla messa domenicale non c'era più di una decina di persone.