Il 19 febbraio del 1937, nel corso di una cerimonia organizzata per celebrare la nascita dell’erede di casa Savoia, due partigiani di origine eritrea fecero un attentano contro il viceré Rodolfo Graziani che rimase ferito. Sul luogo delle esplosioni gli italiani aprirono il fuoco uccidendo tutti gli etiopici convenuti e nei tre giorni successivi ammazzarono qualsiasi nero residente in Addis Abeba. Le repressioni poi nelle settimane successive vennero estese nel governatorato dell’Amara e nello Scioa. Debra Libanos ed Engecha furono le stragi più efferate. I morti nel complesso furono per lo meno 30 mila.
I nobili di medio rango vennero deportati nel campo di concentramento di Danane in Somalia e alle isole Dahlac, quelli di alto rango vennero internati in varie località della penisola: Longobucco, Mercogliano, Roma, Tivoli, Ponza, Asinara, Trento, Napoli, Firenze. Così scrisse Graziani qualche mese dopo, in settembre: «Per mio conto gli attuali confinati in Italia vi debbono essere lasciati morire tutti. È da rallegrarsi che sia avvenuto attentato del 19 febbraio, il quale ci ha dato la possibilità legittima di allontanarli, se no le cose in questo ultimo scorcio di ribellione sarebbero state ben diverse».
In Italia vennero deportati 383 etiopici: 272 uomini, 67 donne e 45 bambini. Il numero dei bambini, sotto i 14 anni, potrebbe essere più alto poiché negli elenchi non viene indicata l’età dei domestici e delle domestiche. Vennero ripartiti tra «particolarmente pericolosi» e «recuperabili».
Anche bambini e neonati se figli di ras vennero inclusi fra i particolarmente pericolosi i quali nei trasferimenti via terra e per mare vennero costantemente tenuti incatenati e segregati dai bianchi. Oltre a questi deportati, in Italia vennero internati altri soggetti come il ras Immirù, formalmente l’unico prigioniero di guerra insieme a Tajè Gululatiè, e la famiglia Nassibou, rapita per ottenere la consegna del ras Nassibou che poi morì per avere respirato iprite nella guerra del 1935-36.
La gestione dei deportati venne demandata al Ministero degli interni e ai prefetti che però dovettero più volte sottostare ai diktat del Ministero dell’Africa orientale italiana e all’accanimento di Enrico Cerulli, sottosegretario all’Africa italiana, inserito nel dopoguerra nella lista dei criminali di guerra presentata dal governo etiopico alle Nazioni unite. Le autorità entrarono più volte in conflitto per il semplice fatto che ognuna voleva esercitare potere sulle altre e a pagarne le conseguenze furono gli etiopici.
Ai deportati era concesso scrivere lettere ai parenti rimasti in patria e agli altri connazionali sparsi lungo la penisola. La traduzione veniva fatta da interpreti che svolgevano il ruolo di collaborazionisti poiché fornivano informazioni su atteggiamenti e discorsi che carpivano ai deportati. Le lettere, una volta tradotte, passavano al vaglio della censura che era compito di monsignor Barlassina della congregazione della Consolata il quale intratteneva stretti rapporti con gli Interni e l’Africa italiana fornendo loro informazioni confidenziali. Tra le centinaia di lettere conservate negli archivi della Farnesina, quella più forte è senz’altro quella scritta dai bambini internati a Mercogliano che, per inciso, quando la mostrai ad Angelo Del Boca mi disse: «basterebbe questa per farci un libro, dice tutto».
I deportati vennero rimpatriati nel 1938 per volontà di Amedeo di Savoia. L’obiettivo era quello di pacificare gli animi ma anche di ottenere significative sottomissioni. Il bastone e la carota insomma, una pratica ben rodata in Italia dal fascismo per piegare l’avversario.
Tratto da "Giorgia Farina, un film con un re e la memorie dell’Etiopia" di Matteo Dominioni, Alias Domenica (il manifesto) del 25/5/2025